Brescia
Il viaggio tra i siti UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere” comincia dalla Lombardia, una regione che già nel nome testimonia il suo legame con questo antico popolo, e più precisamente da Brescia. Città dal nobile passato romano, Brescia visse infatti una seconda età dell’oro dopo la conquista longobarda, alla fine del VI secolo. I monumenti di origine romana, come il Capitolium e il teatro (oggi mirabilmente restaurati), erano stati abbandonati e saccheggiati dai Goti, quando il duca longobardo Alachis si insediò in città e ne favorì la rinascita. Da allora, Brescia ebbe un ruolo di primo piano per tutta l’età longobarda: da qui proveniva il re Rotari, che promosse la prima raccolta scritta delle leggi dei Longobardi. Bresciana era anche Ansa, sposa dell’ultimo re longobardo Desiderio, che dotò la città di grandiosi edifici. La committenza principale della coppia reale fu il ricchissimo monastero di S. Salvatore, oggi considerato patrimonio UNESCO e parte del complesso del Museo di S. Giulia: fondato nel 753, fu retto dalla principessa Ansperga o Anselberga e continuò a svolgere un importante ruolo culturale e religioso anche dopo la caduta del regno longobardo, accumulando tesori come la Lipsanoteca d’avorio intagliato (IV secolo) e la cosiddetta croce di Desiderio (IX-X secolo). Ammirata la basilica del monastero, con i suoi stucchi e marmi di spoglio, proseguite la visita nel resto del museo, che conserva opere d’arte e straordinari reperti della storia della città, e magari concedetevi un assaggio a tema: i “desideri”, deliziosi dolcetti alla farina di castagne ispirati all’ultimo re longobardo. Sono stati creati nel 2021 per celebrare il decennale del riconoscimento UNESCO. La ricetta si rifà a ingredienti comuni nella dieta longobarda, come frutta secca spontanea (castagne, noci, nocciole…) e miele.
Brescia non è certo l’unica città lombarda con un’importante eredità artistica longobarda: sulla via per il secondo sito UNESCO, il complesso di Castelseprio-Torba, il consiglio è fare una deviazione a Monza per visitare il Duomo di S. Giovanni Battista e il Museo e Tesoro del Duomo di Monza, che conservano rispettivamente la corona ferrea e gli ori della regina Teodolinda. Da Monza, con la Statale 36 diretta al lago di Como e alle Prealpi si può raggiungere un’altra perla longobarda: la panoramica abbazia di S. Pietro al Monte a Civate, con i suoi apocalittici affreschi. Un’ora di viaggio decisamente ben spesa…
Complesso di Castelseprio-Torba
Restiamo in Lombardia per la seconda tappa del viaggio nei siti UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere”, che ora si tuffa nel cuore boscoso della valle dell’Olona, a sud di Varese, per scoprire il complesso archeologico di Castelseprio-Torba. La zona oggi è tranquilla, ma per secoli questo territorio fu un crocevia strategico, fluviale e terrestre, tra la pianura e i valichi alpini. Ecco perché i romani vi fondarono un grosso insediamento militare, poi occupato dai Longobardi che ne fecero un gastaldato.
Il complesso del Castrum, circondato dai resti delle mura, comprende anche la basilica di S. Giovanni Evangelista con il suo battistero ottagonale. Di fondazione tardoantica, fu riutilizzata dai Longobardi: qua e là, tra le rovine si scorgono le sepolture dei loro aristocratici. Dopo aver ammirato i reperti conservati nell’Antiquarium, usciamo dalle mura per raggiungere la chiesetta di S. Maria Foris Portas. Questo insospettabile edificio conserva un ciclo di affreschi tra i più significativi dell’Alto Medioevo, variamente datato dal VII al X secolo. Colpisce la naturalezza delle scene tratte dai vangeli apocrifi, così realistiche ed espressive da rievocare l’arte romana. L’ultimo elemento del complesso archeologico è il vicino monastero di Torba, nel comune di Gornate Olona. Fu ricavato da una fortificazione militare romana, caduta in disuso in età longobarda e rioccupata da monache benedettine tra l’VIII e l’XI secolo. Particolarmente interessanti sono gli affreschi nella torre con ritratti di monache: di una, Aliberga, ci è rimasto anche il nome, tipicamente longobardo. Non sappiamo se lei e le sue consorelle si dedicassero ai dolci, come spesso accade nei monasteri… Nel caso, sicuramente avrebbero prodotto specialità a base di mandorle e miele, e magari avrebbero aggiunto alle loro ricette datteri provenienti dall’Oriente, come si usava tra i nobili longobardi. Ancora oggi, questa è la terra del croccante, degli amaretti di Saronno e del Dolce del Cardinale, impasto semplice arricchito di frutta secca e canditi. E l’orgoglio locale è il miele Varesino: un monofloreale di acacia DOP quasi trasparente, dall’aroma vanigliato, prodotto tra i fiumi Olona e Ticino.
Proprio il Ticino garantiva i collegamenti tra queste terre e Pavia, la capitale del regno longobardo. Per visitare la città basta guidare verso sud per un’ora o poco più: il monumento da non perdere è la basilica di S. Pietro in Ciel d’oro dove riposano S. Agostino e (forse) il re Liutprando.
Cividale del Friuli
È tempo di lasciare la Lombardia alla volta del Friuli, per scoprire un altro dei siti UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere”. Siamo nel borgo di Cividale del Friuli, affacciato sulle rive del Natisone, un luogo oggi provinciale ma centralissimo in epoca longobarda, quando ospitava la sede di un gastaldo, una sorta di amministratore per conto del re. La principale testimonianza è il ricco monastero di S. Maria in Valle con il suo Tempietto Longobardo, forse la migliore espressione dell’architettura e dell’arte decorativa dei Longobardi sopravvissuta in Italia: osservate le decorazioni finissime in stucco, i tralci di vite e le figure slanciate delle sante sulla controfacciata. Molti altri edifici impreziosivano il borgo, per esempio una basilica, un battistero e un palazzo patriarcale; alcuni sono stati smantellati per fare spazio alla nuova cattedrale e a strutture successive. Per fortuna, non sono andati perduti i preziosissimi manufatti visibili oggi nel Museo Cristiano e Tesoro del Duomo. Tra i più importanti, l’ottagonale tegurio di Callisto, fatto realizzare nell’VIII secolo per l’antico battistero, è adornato da splendidi bassorilievi con motivi vegetali, animali e geometrici, spesso legati alla simbologia del battesimo (pavoni e grifoni alla fonte, leoni e agnelli…). L’altro gioiello del museo è l’altare del duca Ratchis, più o meno coevo al tegurio, un parallelepipedo composto da lastre marmoree scolpite: davanti si vede un Cristo benedicente circondato da angeli, sui lati scene evangeliche. Nonostante le forme semplificate, le figure appaiono dinamiche grazie alle pieghe delle vesti e dovevano produrre sui fedeli un effetto ancora più intenso grazie alla colorazione, oggi perduta, e alle pietre preziose che le adornavano (nei fiori, nelle croci, nelle ali degli angeli e probabilmente anche negli occhi dei personaggi). Usciti dal museo, per un ultimo peccato di gola prima di lasciare il Friuli, vi consigliamo la gubana, un dolce a forma di chiocciola con ripieno di noci, uvetta, pinoli, grappa e scorza di limone. Fu citato per la prima volta nel 1409, quando fu servito in un banchetto per celebrare la visita di papa Gregorio XII proprio a Cividale, ma gli esperti di storia dell’alimentazione ritengono che sia nato in epoca longobarda, per poi assorbire influenze slave. Del resto a Spoleto, che fu capitale ducale longobarda, si produce un dolce molto simile e anch’esso di forma “arrotolata”: l’attorta…
Spoleto
Dal Friuli scendiamo in Umbria, alla scoperta di Spoleto, che custodisce il prossimo tra i siti UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere”. Davanti a questa deliziosa cittadina collinare si fatica a immaginare che qui un tempo pulsava la vita intensa di una capitale, con i suoi traffici e i suoi intrighi. Eppure, per due secoli Spoleto fu l’epicentro del potere longobardo in Italia centrale, sede dell’amministrazione di un grande ducato nato attorno al 570 e passato in mano ai Franchi dopo il 774. Le tracce principali lasciate dai Longobardi si trovano oggi fuori dal centro urbano, nell’area del Colle Ciciano, dove sorgono vaste aree cimiteriali come quella di S. Ponziano, edifici religiosi come la chiesa battesimale di S. Michele Arcangelo e soprattutto la splendida basilica di S. Salvatore.
La basilica, patrimonio UNESCO, è uno straordinario esempio di sincretismo architettonico che unisce tendenze germaniche, classiche, bizantine e siriache, manifesto delle ambizioni culturali cosmopolite dell’élite sociale e politica longobarda. Qui a Spoleto, infatti, erano giunti gruppi di monaci eremiti dalla Siria, la cui influenza si rivelò fondamentale per lo sviluppo del monachesimo occidentale… Particolarmente marcato è anche l’utilizzo insistito di elementi romani di spoglio come colonne, capitelli, bassorilievi: alcuni sono reimpiegati come tali, altri sono inseriti in modo apparentemente casuale, come se gli architetti longobardi ne ignorassero la funzione originaria. La scoperta della Spoleto longobarda continua nel Museo Nazionale del Ducato di Spoleto ospitato nella Rocca Albornoz, maestosa fortezza che domina la città. Vi sono conservati reperti che raccontano la storia del territorio dagli insediamenti monastici, alla fondazione del ducato e alla sua successiva caduta.
Ora passeggiate per Spoleto in cerca di un assaggio di attorta, un dolce arrotolato ripieno di mele, frutta secca e cacao, poi spennellato con l’alchermes. Simile nella forma alla gubana friulana, ricorda un po’ anche lo strudel, e anche questo sapore germanico induce a pensare che l’abbiamo portato proprio i Longobardi secoli fa. Se siete qui a Carnevale, non perdete la crescionda: forse longobarda, questa torta morbida a tre strati (oggi sono amaretto, budino e cioccolato) nacque come piatto salato che abbinava uova, pangrattato, brodo di gallina, pecorino, miele e buccia di limone grattugiata.
Tempietto sul Clitunno
Rimaniamo nei dintorni di Spoleto per visitare un altro dei centri che rientrano nel sito seriale UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere”: il tempietto sul Clitunno. Si trova a Pissignano, frazione di Campello sul Clitunno, in un suggestivo contesto naturale già citato da Plinio il Giovane lungo il corso del fiume Clitunno. Il Tempietto è un edificio davvero insolito, che a prima vista può sembrare uno dei tanti resti romani di cui è ricca la nostra Penisola: un sacello rettangolare con timpano triangolare e portico frontale con quattro colonne. Tuttavia, a uno sguardo più ravvicinato, le prime incongruenze saltano all’occhio. Le colonne non sono lisce o scanalate, come quelle classiche, bensì scolpite con una fitta lavorazione a spirali e foglie. La dedica sull’architrave è cristiana e non pagana, così come gli affreschi interni, mentre sembrano barbarici i rilievi sul timpano. Queste caratteristiche hanno lasciato perplessi gli storici, che per anni hanno attribuito all’edificio datazioni discordanti, dal tardo Impero romano, all’epoca longobarda o a quella romanica. Secondo gli ultimi studi, il Tempietto risalirebbe al tempo del ducato longobardo di Spoleto (VI-VIII secolo), viste anche le somiglianze con la spoletina basilica di S. Salvatore. Risolto questo mistero, però, molti altri restano senza soluzione: chi fu a commissionarlo? E come mai proprio qui? Quali sono i pezzi di spoglio e quali quelli realizzati ex novo? Soprattutto, perché costruire un luogo di culto cristiano in forme che copiano schiettamente quelle del paganesimo romano?
Con ogni probabilità, sono domande che non troveranno mai risposta. Se questi enigmi irrisolti vi hanno lasciato l’amaro in bocca, potete consolarvi con un pranzo in una delle molte trattorie della zona, famosa per la sua cucina saporita e robusta. Protagonisti sono l’olio extravergine d’oliva, la pasta fatta in casa, dagli strangozzi ai maltagliati e alle pappardelle, e il Trebbiano. A proposito: sulle tavole dei Longobardi, che fossero in Umbria, nel Pavese o in Friuli, il vino non mancava mai! Se si apprezza la carne, per sentirsi come un nobile del ducato spoletino non c’è nulla di meglio di un tagliere di salumi (la carne suina essiccata era la base dell’alimentazione longobarda) o di uno spiedo o un brasato di selvaggina ben speziato: a quel tempo, la carne, la pratica della caccia e le costose spezie orientali erano tre veri status symbol…
Benevento
Proseguendo verso sud, il viaggio tra i siti seriali UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere” ci porta in Campania, nell’antica città di Benevento. Qui, nel 571, nacque un ducato longobardo molto più longevo di quelli settentrionali. Visse per cinque secoli, anche dopo la caduta della Langobardia Maior sotto la spada di Carlo Magno, e si estinse solo nel 1077, con la morte dell’ultimo duca Landolfo VI (la città passò allora sotto il papato). Lo status di capitale della Langobardia Minor fece sì che Benevento venisse detta “seconda Pavia” (Ticinum geminum): qui aveva sede una delle zecche più grandi d’Europa e qui visse a lungo Paolo Diacono, il massimo storico dei Longobardi. Dell’epoca del ducato a Benevento restano segni rilevanti, tra cui diversi tratti di mura, la piccola chiesa di S. Ilario e soprattutto la chiesa di S. Sofia. Quest’ultima fu eretta insieme a un monastero femminile nel 758, per volere del duca Arechi II. L’intitolazione “bizantineggiante” a santa Sofia ricorda quella della basilica di Costantinopoli, oggi Istanbul: fu forse un suggerimento di Paolo Diacono, che era stato precettore della principessa Adelperga, figlia di re Desiderio e sposa di Adelchi II. Nonostante le piccole dimensioni, la chiesa è un gioiello di architettura longobarda, con una pianta centrale singolarissima e un massiccio riutilizzo di materiali antichi di spoglio. I resti degli affreschi dell’abside sono tra i più antichi (VIII secolo) e importanti del Medioevo meridionale. L’attiguo monastero femminile, celebre all’epoca per il suo scritporium, ospita oggi l’interessante Museo del Sannio, con diversi materiali archeologici.
Una volta usciti, vale la pena di fare una passeggiata nel centro storico e poi una sosta dolce a base di cupeta, una sorta di progenitore del torrone, che secondo la tradizione risale addirittura all’epoca sannita, citato da autori come Tito Livio o Marziale: non c’è dubbio che fu apprezzato anche dai Longobardi. E se non dovete mettervi subito al volante, concedetevi anche un bicchierino di liquore Strega, deliziosa miscela segreta di 76 erbe che si ispira alle leggendarie streghe locali.
Santuario di S. Michele Arcangelo
Concludiamo il nostro viaggio sullo “sperone” dello Stivale, il Gargano, nel santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, anch’esso parte del sito seriale UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere”. I Longobardi, popolo bellicoso cristianizzato di fresco, erano particolarmente affascinati dai santi guerrieri, che in qualche modo rievocavano le caratteristiche di divinità germaniche come Odino. E dunque, chi poteva diventare il loro patrono se non l’arcangelo Michele, principe delle milizie celesti con la spada sguainata in pugno? In epoca longobarda i luoghi di culto dedicati all’arcangelo si moltiplicarono, andando a rinfoltire la misteriosa linea di santuari montani che attraversa l’Europa da nord ovest a sud est, dall’irlandese Skellig Michael fino al monte Carmelo in Israele. Dopo il 490, una serie di apparizioni dell’arcangelo in una grotta a 800 metri di quota favorirono la fondazione di un santuario anche qui sul Gargano, in un luogo che dal VII secolo, dopo la conquista longobarda, divenne meta di pellegrinaggio internazionale. Tale rimase anche sotto Normanni, Svevi e Angioini, e ancora oggi è luogo di intensa devozione.
Una volta superata la grandiosa Torre Angioina all’ingresso, ottagonale come il federiciano Castel del Monte, si scende lungo una scala scavata nella roccia: fate caso ai graffiti poliglotti, alle impronte di mani e piedi, ai misteriosi simboli lasciati da migliaia di pellegrini nei secoli. Un autentico capolavoro sono le porte bronzee, fuse a Costantinopoli nel 1076, che danno accesso alla grotta, in cui spicca la statua cinquecentesca dell’arcangelo. Si scende ancora di un livello per visitare le suggestive Cripte longobarde (VII-VIII secolo), il nucleo più antico del santuario. Anche qui potrete notare le iscrizioni firmate da pellegrini dai nomi semitici, latini, greci e germanici, alcune di esse sono in alfabeto runico. Una volta lasciato il santuario, prendetevi un po’ di tempo per visitare il borgo di Monte Sant’Angelo, per godere della sua atmosfera autentica, ammirare i panorami sul golfo di Manfredonia e magari assaggiare il pane locale, vanto del paese, e le tipiche ostie piene (in dialetto “ostie chiene”) delizioso dolce di origine monastica composto da due ostie che racchiudono un croccante di mandorle tostate, miele e cannella.