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Idea Viaggio
Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto

Di passo in passo, un giro sui valichi d’Italia

Tipologia
Percorso in auto
Durata
10 giorni
Numero Tappe
5
Difficoltà
Facile

Nella geografia, come nella vita, la natura delle cose dipende da come le si guarda. Una montagna può essere un ostacolo invalicabile o un punto di passaggio tra una valle e l’altra, duro da risalire e difficile da percorrere. Anche Ötzi, la mummia del Similaun oggi esposta al Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, quando è stata sorpresa dalla tempesta che le è costata la vita stava andando da un lato all’altro delle Alpi, forse per vendere della merce, forse per cercare una vita migliore.

Vie di comunicazione battute da secoli, i passi italiani, alpini o appenninici che siano, conservano diverse testimonianze del loro ruolo fondamentale e delle genti che li hanno attraversati, che siano i resti di un luogo di culto pagano, come sul passo del Gran S. Bernardo; una chiesetta in pietra che sembra antica ma è invece recente, come sul passo della Cisa; un antico sito di Posta trasformato in albergo, come nel caso del passo dello Spluga. Ma spesso si trovano testimonianze ben più recenti: è il caso del passo dello Stelvio, che con i suoi 2.757 metri sul livello del mare è anche il più alto d’Europa. Altrove i passi sono stati musealizzati, come in Alto Adige dove sulle rampe che conducono al passo delle Palade e al passo del Rombo hanno aperto dei piccoli musei per raccontare la storia della strada che li attraversa.

I valichi seguono le stagioni della vita delle comunità che gli vivono intorno, così alle volte accade che da centrali che erano diventino di secondo piano: negli ultimi anni è successo perché da qualche parte (è il caso del passo della Futa) hanno aperto un’autostrada o un tunnel che agevola chi deve andare da una parte all’altra. In altri momenti è successo perché i due territori che univa erano in guerra (il passo Valles tra Repubblica di Venezia e territori asburgici), o perché scemavano i traffici da una città verso un’altra.

Oggi in cima ai passi si sale perché, specie nella bella stagione, si deve andare dall’altro lato, ma anche solo perché si è curiosi di affacciarsi a un nuovo orizzonte e vedere se di là è meglio.

Il colle del Gran S. Bernardo e l’inizio della via Francigena

Vista aerea del versante italiano del colle del Gran S. Bernardo

Sul punto di confine la frontiera è inesistente: tra Italia e Svizzera sul colle del Gran S. Bernardo il più delle volte si entra senza controlli. A segnare il limite un cippo di pietra, da un lato la lettera “I”, dall’altro la “S”. A quota 2.469 metri, il colle del Gran S. Bernardo mette in comunicazione la Valle d’Aosta con il Canton Vallese svizzero, segnando l’inizio del tratto italiano della via Francigena. Ma per molti è più spesso meta di una gita in giornata durante i mesi estivi, che poi oggigiorno sono gli unici in cui rimane aperto il valico, grossomodo tra fine maggio quando si scioglie la tanta neve che si accumula, e inizio ottobre, quando a queste quote arrivano i primi fiocchi. Del resto dal 1964 il traforo del Gran S. Bernardo con i suoi oltre 5.000 metri di galleria ha reso non più necessario il transito sul passo. Non di meno in inverno il passo continua a essere frequentato dagli scialpinisti che risalgono con le pelli di foca sotto gli sci.

Ma è con la bella stagione che la salita al colle del Gran S. Bernardo è più affascinante (del resto anche Napoleone lo valicò nel maggio del 1800). Dal capoluogo Aosta sono circa 40 chilometri e quasi 2.000 metri di dislivello, lungo la SS27, magari fermandosi per un caffè nella Bandiera Arancione TCI Étroubles o più su, a Saint-Rhémy en Bosses dove si produce il Jambon de Bosses Dop. Per poi arrivare dopo una fila di tornanti in cima al colle e fermarsi per una fotografia davanti al cartello stradale a certificare l’avvenuta scalata, o per pranzo nei rifugi, o ancora per vedere l’ospizio dei canonici di S. Bernardo che da quasi 1.000 anni offre un tetto e una bevanda calda ai viandanti.

Una via verso l’eterna estate, il passo dello Spluga

Passo dello Spluga

Il filo di asfalto che porta al passo dello Spluga è un vero gioiello delle costruzioni stradali del nostro Paese. Un’infinita serie di tornati, alcuni coperti, che si arrotolano su se stessi come le spire un serpente, per superare il tratto del Sengio: una parete rocciosa che vista da lontano sembra impossibile da affrontare. Un’opera frutto del lavoro dell’ingegner Carlo Donegani che, tra il 1818 e il 1822, progettò e realizzò la strada carrozzabile, per andare a sostituire l’antica via Spluga, lo stretto e spaventoso sentiero che da secoli metteva in comunicazione il Canton Grigioni e la valle del Reno con la Valchiavenna e la Lombardia. Una strada la cui storia è raccontata nell’Ecomuseo Valle Spluga di Campodolcino, a una quindicina di chilometri di distanza da Chiavenna, unico comune Bandiera Arancione TCI della provincia di Sondrio e punto di partenza ideale per una gita sul passo dello Spluga.

Il valico si trova a 2.115 metri, in una conca dominata dalle vette di oltre 3.000 metri del Pizzo Suretta a est e del Pizzo Tambò a ovest. Terminata la parte più dura della salita, con un dislivello di quasi 1.500 metri in una trentina di chilometri, all’altezza della deviazione per Madesimo la strada spiana e si addentra per la valle, fino ad arrivare a una conca che dagli Anni ‘30 è diventata un lago artificiale, per via di una diga costruita per fornire acqua alle centrali idroelettriche a valle. Il fronte della diga è ricoperto di lastre di serpentino verde, pietra tipica di questo tratto delle Alpi Retiche. In fondo al lago l’abitato di Monte, un gruppo di case sorte lungo la strada, tra cui spicca l’odierno Hotel Posta, che per secoli è stato il punto di sosta per il cambio degli animali da soma che risalivano lungo la stretta gola del Cardinello. In paese c’è anche una piccola chiesa e una latteria che funziona solo in estate, quando i pascoli intorno al lago si popolano di mandrie in cerca dell’erba fresca.

Sul tetto d’Europa, il passo dello Stelvio

I tornanti del passo dello Stelvio

Ci sono passi alpini che sono entrati nel mito. Merito, spesso, del ciclismo e dell’epica contemporanea legata a corse come il Giro d’Italia, che in alcune tappe ha scritto la storia di un nuovo eroismo fatto di sudore e fatica. Il passo Stelvio con i suoi 2.757 metri è il più alto d’Italia e per decenni lo è stato anche d’Europa, almeno fino a quando i francesi non hanno aperto una strada sul colle d’Iseran, a 2.764 metri.  Nonostante questo continua a rappresentare una calamita per gli amanti della bicicletta che si cimentano nell’ardita salita che parte da Bormio, in Valtellina, e arriva in Val Venosta, passando per Trafoi, dopo 47 chilometri di strada, 88 tornanti e un dislivello in salita, se affrontato dal lato lombardo, di 1.533 metri. Una faticata, specie se si sale dal versante altoatesino con i suoi 48 tornanti che si sgranano come i grani di un rosario. Ma ripagata dall’emozione di arrivare in cima, e dal paesaggio lungo la strada che si inoltra nel massiccio dell’Ortles-Cevedale, all’interno del Parco Nazionale dello Stelvio. Una fatica da cui ci si può riprendere fermandosi, se si ridiscende verso l’alta Valtellina, alle Bagni Nuovi o Bagni Vecchi di Bormio.

Una sgobbata relativa se si affronta la salita in macchina, perché anche questa strada ha una sua bellezza specifica. Il merito è ancora dell’ingegner Carlo Donegani, che edificò questa strada per venire incontro al volere dei governanti di Vienna, che premevano per un collegamento diretto aperto tutto l’anno tra il Tirolo e Milano, e che tagliasse fuori la Svizzera. Oggi la strada è aperta solo da fine maggio a metà ottobre, dipende da quando arriva la prima nevicata: 4 mesi in cui transitano migliaia di persone attratte dall’idea di arrivare sul tetto d’Europa. Ma c’è anche chi sul passo in estate sale per sciare: accanto al valico partono gli allestimenti per lo sci estivo: 20 chilometri di piste adatte a tutti, che grazie ai 6 impianti di risalita collegano il passo agli oltre 3.000 metri di altezza del monte Cristallo.

Il passo del Rombo e il passo delle Palade: quando i valichi diventano musei

Passo del Rombo

Ci sono strade nelle Alpi che vengono percorse perché attraversano affascinanti vallate ricche di storia e di bellezze naturalistiche, al punto da essere diventate attrazioni turistiche. È il caso del passo del Rombo, un valico posto a 2.474 metri lungo la strada che unisce Austria e Sud Tirolo. Prima della seconda guerra mondiale la strada era poco più che una mulattiera ma oggi collega S. Martino in val Passiria (dove merita una sosta il Museo Passiria dedicato ad Andreas Hofer) alla località turistica austriaca di Sölden, deviando dalla SS44 che unisce Merano con Vipiteno attraverso il passo Giovo, a 2.094 metri d’altezza. Il paesaggio che si attraversa è austero e selvaggio, dà l’impressione di essere in una zona di frontiera. Una strada particolare, che dal lato austriaco è a pedaggio, mentre dal lato altoatesino è stata abbellita da una serie di sculture architettoniche che sottolineano l'emozione dell'ascesa al passo fornendo informazioni sulla natura e la cultura dei luoghi. 5 stazioni panoramiche ed espositive insieme, che aumentano l'esperienza turistica della salita e portano avanti un'idea di musealizzazione delle strade di alta montagna in modo da ampliare l'esperienza conoscitiva di chi le percorre. Esperienza che in vetta è raccontata nel Museo di Passo del Rombo, una specie di masso erratico di metallo che sporge dal versante austriaco a quello italiano, a sottolineare il carattere transfrontaliero dei passi, che storicamente uniscono quello che la politica divide.

L’altro è il passo delle Palade, un valico relativamente basso per le Alpi, solo 1.518 metri, che collega Lana e Merano con l’Alta Val di Non. Non paesaggi maestosi, come in alta montagna, ma una serie di curve dolci dove fermarsi e contemplare tutta la bellezza di queste valli. A metà salita, ben dopo Cermes, c’è un belvedere con una panchina solitaria che si affaccia sui prati, un balcone da cui la vista abbraccia le montagne che dominano Merano ai profili chiari delle Dolomiti in lontananza. Panorami da ammirare che si trovano anche sull’altro versante: all’altezza di Malgasot in una zona soleggiata si gode una vista spettacolare di tutta l’alta Val di Non, con i campanili a cipolla, i meleti fitti come fossero fili di una maglia, i boschi irregolari. Una strada che ha il suo museo, dentro il Bunker Gampen, una costruzione immensa voluta da Mussolini per difendere i confini italiani in caso di una eventuale invasione della Germania.

Valicare gli Appennini, dalla Futa alla Cisa

Passo della Cisa

Bologna e Firenze: due mondi uniti dal passo della Futa con la sua altezza modesta, meno di 1.000 metri, ultimata nel 1759 e oggi conosciuta anche come Statale 65. Nel 1960 venne poi aperta l’autostrada del Sole e allora la strada della Futa e il passo tornarono nella tranquillità che dura tuttora, utilizzati solo per il traffico locale e nei weekend soprattutto dai motociclisti. Non doveva essere così tranquilla la zona durante la seconda guerra Mondiale: proprio sullo spartiacque segnato dal passo, transitava la Linea Gotica, l’ultimo baluardo degli occupanti tedeschi contro le truppe alleate, teatro di scontri che costarono migliaia di vite. Lo testimonia il grande Cimitero Militare Germanico, che si trova sul versante emiliano: il più grande in Italia.

Molto più tranquillo il passo della Cisa. Con i suoi modesti 1.041 metri sul livello del mare, per anni ha segnato il confine tra il Ducato di Parma e le terre del Granducato di Toscana, è stata la via di accesso più agevole per chi dal nord Europa doveva scendere verso Roma, di fatti di qui passa ancora la via Francigena. Da quando nel 1975 è stata aperta l’autostrada Parma-La Spezia ci passano in pochi. Ed è diventata una meta prediletta per i ciclisti, che vengono a rendere omaggio alla Madonna della Guardia, la cui statua è conservata in una chiesa neogotica che svetta sulla cima. Qualcuno ogni tanto esce dall’A15 a Berceto, si ferma a mangiare i funghi porcini che in stagione abbondano e sono gli unici Doc d’Italia, e poi risale fin quassù per un caffè, prima di scendere a Pontremoli, o fare ritorno a casa.

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